QUELLO STRANO VIZIO DI EMIGRARE Sono cresciuto col sospetto che qualcuno mi avesse fatto un brutto scherzo. Già perché all'età di 4 anni sono stato "migrato" a mia insaputa dal paese natale abruzzese, Bomba (da cui bombese, non bombarolo)fino in Brianza, provincia di Como allora ora di Lecco. Il sospetto cresceva con l'età. Perché venivamo trattati con disprezzo? Perché mio padre tornava a casa sempre gonfio di orgoglio represso? Perché noi "terùn" vivevamo una sorta di apartheid? Un dialetto incomprensibile, tradizioni diverse, in Abruzzo insegnavano "vola vola" in Brianza "Ta Pum" ma perché non potevo stare a casa mia? Ogni volta che una vecchietta mi chiedeva di chi ero figlio non sapevo cosa rispondere. A Bomba ero "lu fije de Candida". Li? Umiliazioni, sacrifici, difficoltà. Non sto esagerando. Oggi non so, ma cinquanta anni fa era così, se non peggio. Non capivo perché dovessi vivere quel disagio. Non l'ho mai capito eppure la risposta era chiara. I miei avevano commesso un errore madornale perché, come anche i minatori di Marcinelle, semplicemente "non bisognava emigrare". Cavolo! Era così facile, la verità li davanti gli occhi e invece no. Duri, ostinati a volersene andare dai paesi, del sud come del nord, in questa mania dell'emigrazione. "Tornatene a casa tua, terùn!" e giù botte (prese e date). Poi dice che succedono le disgrazie e che si muore in miniera. Restavano a Manoppello e non succedeva niente. Scusate l'amara ironia, ma veramente i consigli più banali sarebbero da prendere in dovuta considerazione. Uno dei più semplici è che prima di parlare bisognerebbe pensare a quello che si dice, almeno per non essere equivocati. Della serie, collegare la bocca al cervello prima di usarla. LONG JOHNN

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